Non sapevo chi fosse Steve Jobs fino a pochi mesi fa.
Sì, conoscevo la Apple e i Macintosh, ma non ero mai stata (né lo sono tuttora) fanatica o cliente della Mela. Se il nome di Bill Gates mi era eccezionalmente familiare (e non in positivo, stile “plug and pray” per capirci!), quello di Jobs mi era praticamente oscuro.
A giugno incappai per caso nel celeberrimo discorso che Jobs tenne nel 2005 alla Stanford University. Si trattava, per me, di uno dei tanti esercizi cui mi sottopongo per esercitarmi in inglese, nulla di più. Essendo laureata in Retorica e Stilistica (ognuno ha i suoi scheletri nell’armadio), non fui propensa a cadere facilmente vittima dei tanti trucchetti da comunicatore che Jobs mise in atto in quell’occasione.
Però alcune cose meritarono la mia attenzione: il senso etico di un giovane che preferisce rinunciare all’Università piuttosto che sperperare inutilmente i risparmi della famiglia (ed il pensiero va a certi fuoricorso per professione); l’idealismo e la creatività che lo spingono ad iscriversi ad un inutile corso di calligrafia che si rivelerà invece utilissimo, anzi “prezioso” per usare le parole di Jobs, per le future capacità grafiche di tutti i pc; la capacità di rialzarsi dopo il licenziamento dalla compagnia che aveva creato; l’intelligenza di riuscire a cogliere l’aspetto positivo insito in ogni avversità; l’incredibile forza di reagire alla malattia.
Certo, è impossibile combattere contro un male incurabile. Ma in fondo, come diceva Italo Svevo, non è la stessa vita una malattia certamente mortale? E allora penso che, se c’è una vera eredità che ci lascia Steve Jobs, non è l’ultimo I-Phone, ma è il suo messaggio. Quel “Stay hungry, stay foolish” che non vuol dire essere degli scavezzacollo, ma saper perseguire con creatività e fantasia i proprio sogni tanto da riuscire ad ispirare intere generazioni.
Per questo ringrazio Steve Jobs e prego che, ovunque sia, possa continuare ad essere ragionevolmente “pazzo ed affamato”.
🙂
Dario